domenica 15 aprile 2012

le gare dei bambini

Un pubblico insolitamente mansueto
   Chi ha dei figli che nuotano, si sarà reso conto che c'è tutto un insieme di persone che, convinte di aver generato il successore di Michael Phelps, tengono ad una gara di pulcini un atteggiamento simile a quello che avrebbero ad una finale delle olimpiadi. Insomma, capiamoci, stiamo parlando di bambini, cioè di persone che prima di diventare adulte dal punto di vista atletico cambieranno la loro struttura fisica e, probabilmente, avranno diversi sbalzi di crescita. Quello che fanno a quell'età serve a formare il loro carattere, non a farne dei campioni, senza contare che le prestazioni, per i bambini, sono ancora troppo legate al diverso stadio di apprendimento ed alle diverse capacità di concentrazione per essere
un indice delle capacità fisiche.
   Eppure, tutte le volte che guardo il pubblico ad una gara di nuoto, armato di telecamere e macchine fotografiche per immortalare imprese assolutamente banali, mi viene spontaneo domandarmi se davvero quei genitori hanno portato il bambino a divertirsi e ad imparare o lo hanno portato ad affrontare una gara che loro, per età o per mancanza di capacità, non hanno mai affrontato o non possono più affrontare. Questo fenomeno, assolutamente noto e mai abbastanza maledetto nel calcio, dove le squadre dei pulcini godono di un pubblico di tifosi in piena regola, capaci di maledire arbitri, augurare accidenti vari e, se è il caso, di venire alle mani, purtroppo si sta estendendo anche al nuoto. Male, anzi, malissimo. In questo modo una gara, invece di essere un momento di formazione, diventa un momento di frustrazione.
bambini in gara
   Per fortuna che, come diceva Marcello Berardi, un pediatra e, specialmente, un grande pedagogo, i bambini sono in genere animali ben robusti, in grado di sopportare senza rovinarsi troppo molti errori educativi dei genitori. Per rendersene conto basta guardare i bambini di questa foto, che vivono la gara come un gioco. Un gioco serio, intendiamoci, ma pur sempre un gioco, e non saranno certo le urla dei genitori sugli spalti, le inutili misurazioni di centesimi di secondo o le classifiche depositate in federazione per restare ad imperitura memoria a trasformare un gioco in una cosa che, una volta terminata, non è degna neanche solo di un mezzo pensiero della mente di un bambino.
   Le regole di base che mi insegnava il mio allenatore, quelle che si contrapponevano all'incongruente regola di mio nonno che diceva che non si gioca per vincere ma per partecipare, dicevano:
  • Si gareggia per vincere;
  • Quando il gioco è finito è finito, se si è vinto o se si è perso non ha più nessuna importanza;
  • Le medaglie sono d'oro finto, per cui tanto vale lasciarle nel medagliere della società;
  • La vittoria si costruisce con il lavoro di tutti i giorni;
  • La vera vittoria è aver migliorato sé stessi, e per questa non ci sono medaglie.
   Regole semplici, adatte a formare gli atleti di domani ma, specialmente, gli uomini di domani che, evidentemente, oggi sono state dimenticate da molti. 
   Ok, lo so, quando si guarda gareggiare il proprio figlio non lo si può fare senza un moto di orgoglio per un buon risultato, ma il risultato che deve inorgoglirci non è quello del cronometro bensì quello della maturazione del bambino che, se ben indirizzato, diventerà non un campione di nuoto, o di calcio, o di judo o di briscola e tressette, ma un campione di "umanità", capace di lottare contro le difficoltà della vita di tutti i giorni senza animosità e senza debolezze, intrepido guerriero di domani.

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